Ci sono tre professioni impossibili: educare, governare e curare. Perché? Perché siamo tutti pesci immersi nello stesso mare, non esiste un pesce che può vedere gli altri da “fuori” e dirgli cosa fare, come farlo, qual è la direzione giusta da prendere. Un falegname può intagliare il legno, un contadino può arare la terra, un sarto può cucire…

 

Ma un essere umano come può pretendere di educare, gestire, governare, curare un altro essere umano?

DSCN4129E’ immerso nello stesso oceano, come può farlo?

Eppure siamo educatori, terapeuti e governanti. Mestieri complicati, non-mestieri, qualche volta atti di arroganza, di non coerenza, di prese in giro, di pretese di potere e manipolazione. Si può agire guidati dall’ego, spinti dalla paura e dall’ansia, dal bisogno di controllo. Accade.

 

Qualche volta si tratta di percorsi, percorsi di crescita. Si può avanzare a tentoni, cercare di ascoltare ciò che chiede l’anima, il cuore, il sentire… Si può partecipare a una danza comune, in cui si giocano i vari ruoli tra terapeuti, educatori, governanti, malati, educandi e cittadini. Ma appena si attaccano queste etichette subito cadono… perché è evidente che il  terapeuta curando gli altri cura sé stesso; il cittadino -la persona- consapevole è artefice della sua esistenza e partecipa nella vita collettiva, senza deresponsabilizzazioni, o viceversa perde la sua sovranità e galleggia come su una zattera nel mare in un ruolo passivo non vitale; il politico o governante può essere una vera guida se ha forgiato la sua anima nel fuoco con la responsabilità, l’etica e la sensibilità. Il vero percorso di cura è prendersi cura di sé, ci si può far accompagnare e supportare ma non si delega la propria guarigione a qualcun altro.

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E chi educa? Chi viene educato?

Sarei tentata di scrivere che l’educazione non esiste, almeno, non nel senso comune nel termine. Esiste la possibilità di poter accompagnare qualcuno solo se ci si è immersi a propria volta in percorso di consapevolezza ed auto-educazione. E se si accetta che le persone che si incontrano nel proprio percorso, anche professionale, sono lì proprio per insegnarci qualcosa. Senza delegare le responsabilità che come figure educative abbiamo, siamo sveglie e attente alle dinamiche che accadono dentro di noi, per poter vedere -in maniera più o meno pulita- anche quelle fuori di noi. Perché sono sempre vasi comunicanti ma l’unica cosa da cui posso partire davvero è l’osservazione di me, osservare ciò che sento e provo, le dinamiche che vivo.

133E comunque oscilleremo tra l’essere presenti e la non consapevolezza, a volte avremo slanci di coraggio e altre volte cadremo nella paura, saremo liberi o viceversa cederemo al bisogno di controllo, cadremo nelle trappole dell’ego per cui giudicheremo e ci giudicheremo, ci sentiremo “migliori” o “peggiori” perché adotteremo una determinata pratica, stile di vita o dieta, giudicheremo gli atti e le parole di un’altra persona perché la riteniamo troppo diversa da noi o perché è uno specchio che non accettiamo di noi stessi… O a volte accoglieremo ciò che è, ne prenderemo semplicemente atto e lo abbracceremo.

Tutto questo è nella vita, e anche, e soprattutto, in chi gioca il ruolo dell’educatore. Facciamo tentativi, viviamo momenti di vicinanza ed empatia molto significativi e intensi, sperimentiamo un fluire armonioso dell’energia oppure sentiamo blocchi, sbagliamo, chiediamo permesso e chiediamo scusa.

Perché la cosa più importante non è “fare bene”, ma riconoscere cosa si sta facendo e vivendo, osservarlo e non tenerlo celato ai propri occhi e agli occhi altri. Vedere ciò che è, darsi il permesso di apprezzare e realizzare una meraviglia così come darsi il permesso di fare tentativi e sbagliare.

Semplicemente, vedo ciò che è, sto nella verità e mi prendo cura della mia anima… Poi sarà la mia anima che danza con quelle degli altri, senza più bisogno di un’intenzione e un controllo sul movimento, semplicemente accade la danza. L’alchimia trasformativa è nelle cose sottili e impercettibili, per cui non si conduce, non si dirige un processo ma semplicemente si partecipa per quel che è la propria piccola parte. Siamo nel cammino, non sappiamo dove stiamo andando, possiamo solo risuonare su una strada che sentiamo per noi buona, bella, giusta e nutriente.

Poi lasciamo spazio alla fiducia, all’energia e all’universo.

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 Perché in effetti, non sappiamo nulla. Abbiamo tante teorie, tanti studi, tante pratiche e tanti esempi ma poi ogni volta è una partita nuova, ogni volta è un nuovo giocatore con le sue storie. La verità è che non sappiamo assolutamente nulla anche se cerchiamo di rassicurarci in mille modi del contrario. Accettare questo buio, accogliere l’umiltà del non sapere è un’altra grande sfida per l’educatore, pena la tentazione dell’onnipotenza, dell’arroganza e della pretesa di perfezione. Integro tutti i pezzi, accolgo il buio, accetto le fragilità e i bisogni che mi rendono umana, riconosco le mie ferite, una per una, e queste mi regalano umanità e senso del limite. Ascolto il bambino e la bambina che sono in me e la loro richiesta di essere visti e accuditi. Mi faccio piccolo, umile e ricettivo. Tutto fluisce, vedo, accetto e lascio andare.

E una volta che tutti i rumori si assopiscono, può esistere uno spazio vuoto, uno specchio pulito, un canale che si fa libero per vedere ed accogliere ciò che viene da fuori. Perché l’educatore è un po’ come uno spazzacamino gentile… molto attento alla manutenzione e alla pulizia del proprio canale energetico e di quello che passa dentro di lui. Sa di non sapere, ma osserva e si prende cura di sé. E in questa maniera può accompagnare qualcun altro per alcuni pezzetti di strada da percorrere insieme, riconoscendo ognuno per quello che è, valorizzandolo e permettendogli di esprimersi al meglio. Almeno, questa è la nostra intenzione, è il tentativo che facciamo all’Atelier… Verso le persone, grandi e piccole che siano.

 

Irene